“Fredda primavera”, un racconto di Mauro Evangelisti

30 Maggio 2019

La primavera era traditrice. I giorni di sole, che già facevano immaginare estati in spiaggia (anche se nessuno ormai trascorreva lunghe settimane nelle seconde case del litorale, ma immagini, odori, sensazioni fanciullesche, biciclette e i ghiaccioli e i secchielli erano ancora impressi nella memoria) si alternavano a quelle del freddo e del vento che voleva trascinarti via e dello stupore che occupava il tempo lungo delle conversazioni al bar o in ascensore.

Emilio in cucina salutò la moglie Michela, le baciò la testa e poiché era più bassa notò qualche capello bianco, avrebbe voluto dirle di tingersi i capelli perché era infastidito da quei segnali di gioventù archiviata, di appassimento, di parabola discendente. Eppure lei aveva solo 36 anni ed era ancora oggetto di sguardi per strada quando Emilio era distratto. Eppure era di gran lunga la mamma più avvenente tra quelle che con i Suv e le Panda parcheggiate in doppia fila si appostavano all’uscita della scuola elementare ad aspettare i bambini di un quartiere di villette ordinate, non sfarzose, magari appesantite da mutui, ma comunque simbolo di successo rispetto a chi stava dall’altra parte della tangenziale.

Emilio abbracciò di nuovo la moglie e, chissà perché visto che non amava questo tipo di frasi, le disse: «Michela, Michela, chissà dove sarei senza di te». Lei ricambiò l’abbraccio, per pochi secondi si adagiò sulla spalla di lui, poi si rialzò di scatto e lo guardò con un sorriso ironico e silenzioso ma come se dicesse «ora cos’è questa novità che sei diventato dolce?». Emilio allargò le braccia, si conoscevano da 15 anni, da molto prima del matrimonio, della nascita del figlio, del mutuo, della villetta, della cucina nuova, del bambino che si doveva operare alle tonsille e non è niente ma ti preoccupi sempre, dell’impianto elettrico di casa che andava rifatto e i soldi sembrano non bastare mai, ma da quando lui era divenuto capo zona dell’azienda le cose non andavano poi così male.

Era vero: senza Michela si sarebbe sentito perduto. Se suo padre, che era militare, non fosse stato trasferito proprio in quella città, se non fossero andati ad abitare proprio vicino alla famiglia di lei, forse non si sarebbero mai conosciuti e forse non avrebbe mai compreso, in tutta la sua vita, cosa significava amare, essere amato, capirsi e tutte quelle cose lì che ripetute a parole perdono senso, pensava Emilio. «Allora questa notte resti a dormire fuori?» chiese lei. «Sì, meglio, non mi va di fare 200 chilometri di notte, l’azienda mi paga l’hotel». «L’altra sera ho visto un film su una donna che si ritrova sola e sperduta perché il marito muore in un incidente mentre è fuori per lavoro». «Bene, un film allegro, devo toccare ferro?». «Volevo essere certo che avessi firmato tutte le carte perché io possa ereditare tutto in fretta» rise lei. Da quando si conoscevano avevano sempre amato le battute macabre, era modo speciale per allontanare il male dalle loro vite.

Quella sera Emilio terminò molto tardi la riunione nella sede centrale dell’azienda, il direttore generale era stato pignolo e meticoloso. Fuori pioveva fortissimo e ogni tanto il cielo veniva illuminato dai lampi. Prima di salutarsi il direttore lo prese da parte, lontano dagli altri, e gli disse che aveva fatto la voce grossa solo perché tutti dessero il massimo, ma le cose andavano benone e per Emilio a fine semestre ci sarebbe stato un premio sostanzioso. Emilio scese a recuperare l’auto nel garage sotterraneo e guidò sotto una pioggia sempre più intensa, non vedeva nulla, se non la luce proiettata dai suoi fari. Squillò il cellulare, si accorse di avere dimenticato gli auricolari in hotel, rispose tenendo con una mano il volante, con l’altra il cellulare: «Tutto bene, Michela, sto andando a bere una cosa con i colleghi, ma poi torno in hotel, non ti preoccupare».

Lei lo salutò, lui perse il controllo dell’auto perché la strada era allagata, lasciò cadere il cellulare, poi con due mani riuscì a fermare l’auto. Respirò, senti il cuore che gli batteva veloce, si calmò, ripartì. Parcheggiò sotto un palazzo, chiamò con il cellulare: «Sabrina, sono arrivato, aprimi». Al terzo piano entrò in un appartamento dove la tv parlava del maltempo, una ragazza con i capelli biondi e corti, una camicetta ma nuda sotto, lo abbracciò. «Vuoi mangiare?». «No, no, voglio altro». Lei rise, spense la tv. Il giorno dopo c’era di nuovo il sole e mentre guidava Emilio pensò che ciò che provava quando scopava con Sabrina non lo aveva mai provato con nessun’altra donna, che sentiva la mancanza, intensa, di Michela, che il piacere del sesso e l’amore, almeno per lui, erano divisi, l’uno non comprendeva l’altro, e non poteva farci nulla, che non avrebbe mai potuto vivere senza Michela, ma che non avrebbe mai potuto fare a meno delle notti con Sabrina. Era tutto complicato, come quella primavera.

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