La piazza, di nuovo. Dopo 25 anni. In fondo non è cambiata, quanto meno non nel profondo. Al posto dei vecchi con la bicicletta, ragazzi di colore che ridono. Davanti al portone del Municipio ancora l’edicola che usavamo come punto di riferimento per gli appuntamenti, l’uomo che vedo dentro potrebbe essere, invecchiato, il trentenne che mi guardava strano quando gli chiedevo Il Manifesto. Chissà perché non sono mai tornato dopo che dissi addio a Maria. L’università, la morte dei miei, mia sorella che si occupò della burocrazia, i funerali si svolsero nel paese in montagna, non fu necessario tornare. La verità è che temevo di incontrare Maria: i primi anni non volevo che mi chiedesse come mai l’avessi lasciata, dopo non volevo vedere i cambiamenti causati dal tempo. Non so perché oggi sono salito sul treno ad alta velocità e poi sul regionale, perché ho camminato trenta minuti dalla stazione fino a qui. Un bambino piange disperato, la madre lo tira per la mano e gli dice «che figure mi fai fare».
Il sole viene coperto da una nuvola, la torre dell’orologio diventa scura. Io mi sento ancora più solo. Non dovevo tornare. Per lo meno non così tardi. Maria non c’è più: se sbucasse fuori ora da dietro l’angolo, vicino alla gelateria, non sarebbe lei, non sarebbe la ragazza che una volta spiavo dal marciapiede sotto casa sua, intuendone l’ombra che passava dietro le tende della finestra. Non so nulla di lei. Entro in un bar dove ai miei tempi c’era una tabaccheria in cui si giocava al Totocalcio. Chiedo un caffè, il ragazzo dietro al bancone a malapena mi ascolta, si volta, armeggia con la macchina, mi serve una brodaglia inutile e neppure mi saluta quando me ne vado e dico «arrivederci». Il caffè quanto meno mi ha risvegliato, cammino fino al chiostro, non guardo la coppia di ragazzi che si sta baciando perché sarebbe stupido ripensare a quando incontravo Maria proprio lì.
Raggiungo la strada al lato del tribunale e vado a cercare la scritta, “fanculo”, su cui ridevamo sempre con Maria, una volta con una Polaroid le scattai una foto con la scritta sullo sfondo, ma non si vedeva nulla. La scritta c’è ancora, incredibile. Sì, è incredibile, e infatti mi risveglio, il sogno è finito, torno negli anni Novanta, mi aggrappo al letto, guardo i miei libri dell’ultimo anno del liceo sulla scrivania, la camicia a quadri che mi ha regalato Maria. Dopo la vedrò, al bar davanti, ma tremo ancora perché un sogno così realistico non l’ho mai fatto. Sento ancora il dolore concreto della solitudine, la tristezza perché i miei genitori erano morti, avevo allontanato Maria dalla mia vita, cambiato città, perso tutto senza trovare nulla. Ma veramente le cose andranno così? E’ una premonizione o un avvertimento? Forse il sogno semplicemente mi dice: fai attenzione, apprezza ciò che hai perché se e quando lo perderai te ne pentirai.
Non lo so, io non ho intenzione di lasciare Maria, con lei sto bene, anche se ogni tanto mi chiedo come sarebbe trascorrere il tempo con altre ragazze. Un’ora dopo sono al bar davanti al liceo, Maria come al solito sta ascoltando musica con il walkman, io ordino un latte macchiato poi la sorprendo alle spalle e le tolgo le cuffie dalle orecchie, lei si volta, mi urla «stronzo!», poi però sorride e io mi sento felice, il dolore del sogno se ne va, l’abbraccio, lei mi stringe forte, all’orecchio mi sussurra «ma ti sei fatto una canna?». Ridiamo. Quella notte dico ai miei che vado al pub, passo dal garage, prendo della vernice, la metto nel bagagliaio della vecchia 127 di mio padre e vado nella via a fianco del tribunale. Voglio ricoprire la scritta “fanculo”, voglio essere certo che il sogno non si avveri. Ma proprio mentre sto per aprire il barattolo della vernice mi sveglio. Era un sogno anche questo, il primo era incastrato nel secondo. Entrambi estremamente realistici, anche se il primo era una realtà alternativa di me ora, a 43 anni, e il secondo metteva insieme alcuni pezzi della mia vita a 18 anni, anche se non sono mai andato a ricoprire quella scritta.
Mi alzo, sono ancora stanco perché ho fatto il turno di notte, vado in bagno, piscio, sento la voce di Maria che mi urla di non sporcare, ha appena pulito. La sua voce diviene sempre più acuta, non la sopporto più, forse non la sopporto più da dieci anni, ma non ho mai avuto la forza di andarmene. E’ seduta davanti al televisore, sta guardando Sky Tg24, fuma, e ogni tanto commenta. Dice frasi contro i negri, i politici, quelli della tv che guadagnano troppi soldi; con i capelli corti è ancora più brutta. Scendo in garage, prendo un barattolo di vernice, lo carico nel bagagliaio della mia Punto, vado fino alla strada laterale vicino al tribunale. La scritta “fanculo” ormai è quasi invisibile. Non mi interessa se qualcuno potrebbe vedermi, con la vernice la ricalco. Fanculo.