«Venite a prenderci, se ne avete il coraggio, noi non ci arrendiamo». Non riconosco la mia voce. Nascosto dietro a un carro rovesciato che sembra un animale morente, urlo ai soldati dell’imperatore che noi, contadini avvezzi a sole e zappa, non alzeremo le mani, non avanzeremo chiedendo pietà, sperando in un atto di clemenza del generale nei confronti dei folli del piccolo paese che si è ribellato all’autorità.
«Noi vogliamo solo vivere in pace» dico consapevole che l’unica cosa a cui posso aspirare è una morte rapida. E spero che i soldati rinuncino a cercare le donne e i bambini nascosti nelle grotte. Il sole è una lama che alimenta il sudore; gli altri, con spade ma anche solo bastoni, dietro barricate di fortuna all’entrata del paese mi guardano senza riconoscermi, ma mi seguono. Una risata si alza, rotonda, dall’altra parte. È il generale. «Cari signori, noi vi stermineremo in pochi minuti. Vi siete visti? Ci avete visto? Pensate davvero che l’imperatore possa tollerare che un oscuro e puzzolente paese si ribelli? Dove finirà il mondo in questo modo? Se vi chiedo di arrendervi è solo perché abbiamo poco tempo, vorrei tornare prima del tramonto in città. Chi ora si farà avanti e lascerà la schiera degli sciocchi imprudenti, avrà salva la vita. Chi lo farà per primo, eviterà anche la prigione. Chi aspetta, sarà tagliato in due».
Una nuvola nera come la morte, uscita chissà da dove, copre il sole. Piove, tuona, lampi, ma nessuno di noi si muove. Almeno fino a quando sento il tonfo di una spada gettata a terra e vedo avanzare il corpo muscoloso di Battista, il fabbro. Piagnucola e chiede pietà. «Vieni avanti buon uomo, ti stai dimostrando quello con più buon senso in questo sputo di case piene di matti». Non posso crederlo: da bambini mi riempiva di botte per dimostrare di essere il più forte o anche solo per crudeltà, sfidava tutti in prove di coraggio; da adulto prevale in ogni rissa, è considerato l’unico guerriero tra noi contadini miseri e magri, ed è il primo ad arrendersi.
Mi sento ancora parlare: «Tienitelo, non è nessuno, non c’entra nulla con noi. Anzi, togliendoci la mela marcia ci hai reso più forti, caro generale». Urlo e tutti gli altri, insieme a me, urlano, siamo pronti a morire. E così è stato: il generale ha ordinato di attaccare, ho visto lance e asce trafiggere i miei compagni, teste che saltavano, braccia e gambe segate via, sangue che si mescolava alla pioggia. Hanno trovato le donne e i bambini, il generale ha ordinato di ucciderli. C’erano anche i miei due figli, li hanno sgozzati. Poi il generale ha dato l’ordine più crudele: io ero l’unico in piedi, ferito ma con la spada in mano, anche se non ero riuscito a colpire nessuno dei soldati: «Lui no, questa cacca lasciatela in vita, c’è una lezione che deve imparare».
Ho pensato che mi avrebbe fatto torturare, ma non è andata così. Dopo trent’anni sono ancora in vita, in buona salute. Ma schiavo. E l’umiliazione a cui mi ha voluto condannare non è solo servire i suoi familiari come un cane, anche se i figli e la moglie non hanno mai infierito; e non si esaurisce neppure con il dolore per avere guidato gli altri a morire ma restando in vita. No, c’è dell’altro: il generale ha voluto che assistessi all’ascesa di Battista, premiato per essersi arreso ha potuto continuare il suo lavoro, arricchirsi, sposarsi. Il più infame tra noi che però si è piegato all’autorità dell’imperatore ha vissuto una vita soddisfacente, in una bella casa, con una moglie che lo ama e figli forti. Ogni giorno il generale mi ha costretto a fare le pulizie anche nella sua abitazione. Il generale: «Lo vedi? Non esiste giustizia, a cosa è servito l’eroismo dei tuoi compagni? Sono polvere. E tu? Sei uno schiavo, ma potevi essere al posto di Battista».
Poi un giorno, quando la malattia era ormai verso la naturale conclusione, il generale mi ha chiamato: «Sono debole e ho accolto le richieste dei miei figli che per un qualche strano motivo ti vogliono bene. Sei libero, puoi andartene. La lezione è finita. Solo una cosa ti chiedo: perché in questi anni non ha mai tentato di uccidermi o di fuggire?». «Volevo vincere, dimostrarti che alla fine sarei morto da uomo libero, e così sarà». È una bugia che lo soddisfa. Se guardasse con più attenzione i suoi due figli, vedrebbe i miei occhi celesti e il naso grosso, ricorderebbe quando è partito per le battaglie lasciandomi a servire sua moglie. Ma non gli dico nulla, voglio che muoia in pace. Ha rubato i miei figli, io mi sono preso i suoi.