Dopo la rivoluzione, il comandante mi chiamò nel suo ufficio. Mi tremava la palpebra dell’occhio sinistro, come sempre mi succede quando mi sale la pressione. Perché l’uomo più importante della Nazione, colui che aveva guidato la ribellione e sconfitto il tiranno, convocava il direttore del museo?
Il suo viso era parzialmente nascosto dalle suole degli stivali appoggiati sulla scrivania che un tempo era stata quella del presidente. Mi venne alla mente il suo cadavere penzolante, legato a un palo nella piazza principale. Uscii dal percorso contorto dei miei pensieri quando il comandante cominciò a parlare, con quella sua caratteristica voce troppo acuta per un uomo della sua stazza e con la sua determinazione: «Lei non si deve preoccupare – attaccò – sappiamo che da subito si è schierato con la rivoluzione. In molti mi chiedono di cacciarla a calci nel sedere, perché il vecchio regime la nominò direttore del museo. Ma io non sono d’accordo, perché lei era, anzi è, semplicemente uno studioso, un esperto d’arte, non spettava a lei guidare la rivoluzione».
Sussurrai: «In realtà mi dimisi quando il regime uccise mio fratello. Ma mi costrinsero a restare, forse sbagliai, ma il museo è tutta la mia vita». Il comandante si alzò e la palpebra del mio occhio sinistro tremò con ancora più intensità. Sollevò una mano, come a intimarmi di fermarmi. «Ora parliamo del futuro. Io voglio che resti al suo posto, semplicemente. Ma lei capirà che molte delle opere esposte oggi nel museo sono espressione di un’epoca che ha causato morti e schiavitù, il tempo dei pochi che dominavano i molti. Una epoca che abbiamo spazzato via, cancellato per sempre dalla nostra storia. Quei quadri vanno distrutti e sostituti con quelli degli artisti della nuova nazione che la rivoluzione sta costruendo». «Distrutti?».
Pensai alla tela a olio che con colori tenui riproduce una vallata a nord del paese levandoti il respiro; al ritratto della nobildonna con gli orecchini e il barboncino, magistrale nella sua essenzialità; al quadro grande come una parete che ti cattura all’interno di una battaglia e ti sembra di sentire la polvere e l’odore dei cavalli. Tutto sarebbe stato distrutto, la passione, la perizia, la pazienza, il sudore, il genio di quegli artisti sarebbero spariti per sempre. Fu allora che mi balenò una idea. Dissi: «Comandante, io sono d’accordo totalmente con lei. Però la distruzione di una opera d’arte non sarebbe compresa dal resto del mondo. Tutti parleranno della rivoluzione solo perché ha bruciato i quadri del museo nazionale. Non potremmo semplicemente rimuoverli, conservarli nei sotterranei dove nessuno potrà vederli? Faremo così spazio agli artisti della rivoluzione, ma eviteremo che siano giudicati solo per aver causato il rogo dei quadri del passato». Il comandante sputò per terra ed ebbi paura, la palpebra del mio occhio sinistro cessò di tremare come se tutte le parti del mio corpo attendessero una fine imminente. Ma il comandante sorrise: «Forse ha ragione, non possiamo agire d’impulso, con irruenza, dobbiamo meditare bene tutte le mosse. Le do due settimane per trasportare le opere nei sotterranei. Non dovranno mai più essere esposte o viste da qualcuno, la riterrò personalmente responsabile».
La mia nuova doppia vita cominciò allora. Mi lasciai crescere i baffi, come voleva la moda imposta dalla rivoluzione, mi vestii con l’uniforme gialla dei ribelli, anche se non avevo mai sparato un solo colpo, accolsi nel museo i quadri dei nuovi artisti. Alcuni erano molto brutti, didascalici, propagandistici, ritratti dei capi della rivoluzione, combattimenti, scene delle torture del vecchio regime, opere ruffiane e senza genio. Ma sarei ingiusto se non dicessi che una parte invece erano interessanti, alcuni veri capolavori, spesso i più malinconici che, raccontando gli orrori del passato, trasmettevano invece il senso di infelicità universale del genere umano da cui nessuna rivoluzione potrà mai liberarci. Con uno di questi nuovi artisti, molto più giovane di me, divenni amico.
E un giorno, sfidando il divieto del comandante, gli consentii di visitare il mio secondo mondo, quello sotterraneo. Trascorrevo le notti vagando con una torcia in mano, illuminando le opere d’arte che ero stato costretto a rimuovere e nascondere. Avevo allestito una sorta di museo personale, solo per me, nei sotterranei, in un percorso che nessuno conosceva. Il giovane artista, la prima volta, mi chiese: «Ma perché restano nascoste?». Non gli risposi.
Dopo trent’anni però arrivò un’altra rivoluzione, che promise un mondo ancora più giusto, abbatté l’elicottero del comandante, ormai anziano e malato, che tentò di fuggire con due casse piene d’oro. Poi, i nuovi ribelli marciarono fino al museo, con delle taniche di benzina. Tentai di fermarli, di spiegare loro che non dovevano bruciare le opere d’arte, che nei sotterranei avrebbero trovato anche quelle del passato invise al comandante, ma non mi ascoltarono, mi colpirono, mi buttarono a terra, mi presero a calci. Andò a fuoco tutto, distrussero per sempre i dipinti del museo nazionale e, senza saperlo, anche quelli del sotterraneo, del mio museo personale.