Gli altri conduttori di televendite sono frustrati. Sognavano la tv, una carriera da presentatori nei grandi network, contratti d’oro. Si ritrovano a vendere materassi, batterie di pentole, dipinti di autori sconosciuti. Per me è differente: io non dovevo esserci davanti alla telecamera, non avevo mai pensato che sarebbe stato possibile.
Da ragazzo ero timido e isolato, sono sempre stato fuori dal mondo e ho anche lasciato a metà l’università a causa di questo sentirmi a disagio ovunque mi trovassi. Fui assunto in un canale di televendite grazie a un cugino di mio padre. All’inizio dovevo caricare e scaricare la merce, poi quando a causa della crisi il personale fu dimezzato, fui salvato, sempre grazie al cugino di mio padre, ma mi chiesero di lavorare anche come cameraman. Imparai. Un giorno, per la prova microfono, cominciai a parlare fingendo di essere il conduttore di una televendita di orologi. Il direttore della tv mi sentì e decise che potevo provare ad andare in diretta. La prima volta vendetti robot da cucina e mi trasformai: il ragazzino sbilenco e spaventato si trasformò in un venditore convincente, ero meno aggressivo e arrogante degli altri e in sottofondo restava la mia insicurezza che piacque al pubblico.
Dopo cinque anni sono il televenditore più importante del canale. Sono ancora isolato e fuori dal mondo quando lascio gli studi tv, ma quando si accende la telecamera sento di avere un ruolo nella vita. Siamo in diretta, oggi propongo delle imitazioni di mobili antichi: nessuna truffa, lo dico chiaramente che sono copie, ma aggiungo che sono più belle degli originali. Ne ho già venduti diciotto, costano poco, la gente a casa si annoia e compra, c’è tutta una categoria di persone che non sa cosa siano eBay o internet. Chiedo alla regia di mandare qualche telefonata in diretta, è una mia idea, forse un po’ rischiosa, ma rende la trasmissione più genuina e fino ad oggi non è mai successo nulla di male, salvo quella volta che un telespettatore ruttò, ma probabilmente non lo fece di proposito. «Ciao, Augusto, mi chiamo Carolina». Una voce flebile, sarà a causa della linea disturbata, ma sembra che stia per piangere. Dico: «Carolina, devo chiederti una enorme cortesia. Puoi alzare un poco la voce, non riesco a sentirti. E invece mi fa molto piacere ascoltare ciò che ci vuoi dire. Ti piacciono questi mobili, non sono fantastici?». «Sì, Augusto, sono molto belli. E stavo per acquistarli, davvero, poi però…».
Singhiozzi, piange. Il regista mi fa segno di tagliare, di fingere che sia caduta la linea, io invece vado avanti. «Carolina, tranquilla, sei tra amici. Nessun problema se non acquisti i mobili, sarà per un’altra volta». «Sai Augusto, ho pensato che non ho nessuno a cui mostrare quel mobile, la cassettiera che sembra provenire dall’antica Cina. Da quando è morta mia madre, sono sempre più sola». «Quanti anni hai Carolina?» (il regista alza le braccia al cielo, mi fa capire che stiamo perdendo tempo, non si vende nulla). «Ho 23 anni. Ma non riesco a capire cosa mi stia succedendo, è come se fossi spaventata dal mondo, dalle altre persone, come se tutti vedessero i miei difetti. A volte penso che mi vogliano uccidere». «Carolina, io non ti conosco, è vero, ma sento di volerti molto bene». «Grazie, Augusto, anche se tu fai il tuo lavoro di venditore si vede dal profondo degli occhi che sei buono. Ma è tardi: ho già svuotato due flaconi di medicinali, ho letto su internet che se prendo più di venti pasticche muoio senza provare dolore».
Mi viene da piangere, faccio segno al regista di interrompere, voglio aiutare la ragazza, ma non in diretta. Però è lui questa volta che vuole andare avanti. Dico: «Carolina, ti prego, ascoltami, io so cosa stai provando, anch’io ho vissuto momenti bui come il tuo. Giuro, so cosa si prova. Ma ciò che ti può sembrare irrisolvibile, cambia. Ti prego, Carolina, concediti una possibilità, ti prego». Proseguiamo per altri venti minuti, i canali di news ritrasmettono in diretta la telefonata, convinco Carolina a desistere, le prometto che andremo a bere un caffè insieme e ci divertiremo.
Quella sera tutti telegiornali parlano di me: il televenditore che ha salvato una ragazza dal suicidio. La polizia la rintraccia e con l’aiuto di alcuni specialisti le offrono assistenza, garantendo l’anonimato. Parliamo una decina di minuti al telefono, in privato, lei si scusa, è una ragazza molto dolce, mi apre dentro una enorme ferita di tenerezza. Berremo davvero quel caffè insieme. A tarda notte finalmente arrivo a casa. Lascio le luci spente, mi accontento di quella flebile che entra dalle finestre. In bagno prendo due flaconi di psicofarmaci, spargo le pasticche sul tavolo della sala. Le fisso, devo decidere cosa fare. Le prendo tutte in mano, vado in bagno, le getto nel water.