“L’uomo che raccontava”, un racconto di Mauro Evangelisti

30 Ottobre 2019

Formarono un cerchio. Solo Francisco sedeva vicino a lui, con il solito machete, che gli piaceva portare con sé, a dimostrazione del suo potere. In realtà quando c’era da usare la forza non si sporcava le mani, ma si affidavo al gruppo ristretto degli uccisori.

Come faceva ogni mese, avvicinò la lama sul collo di M., inginocchiato a terra, con la mani inutilmente legate, visto che comunque non avrebbe avuto la forza di ribellarsi e la possibilità di opporsi agli uccisori, ma anche al tutti gli altri della tribù, come la chiamava Francisco, che godevano della sua protezione e allo stesso tempo erano i suoi servitori, ognuno con un compito e una utilità differente. M. aveva un problema: era inutile. E, dopo la fine del mondo come lo avevano sempre conosciuto, solo chi serviva sopravviveva. M. ebbe un sussulto nell’avvertire il freddo della lama sulla pelle. Tutti risero. «Vediamo se anche questo mese ti salvi. Sai, ho fatto dei calcoli: ormai sono più di cento le volte che mi hai convinto che non sei inutile come sembri. Tu grazie a noi mangi, bevi, ti difendiamo dalle altre tribù e dagli animali. Ma tu in cambio cosa ci dai? Loro – indicò gli uccisori – sanno combattere, quelli – si rivolse ai cacciatori – ci procurano il cibo – e queste donne lo cucinano, mentre le altre ci soddisfano. E potrei andare avanti a lungo. Ora dimostraci che anche tu servi a qualcosa».

Quando M. era stato salvato da un attacco di cani selvaggi e fatto prigioniero, Francisco lo aveva a lungo interrogato, concludendo: «Sei inutile, saresti solo un peso, ti lasciamo a morire di fame o sbranato dai cani». M. aveva trattenuto lacrime e paura, ricordato il suo lavoro nel vecchio mondo, prima della grande distruzione. «Io vi servo, io so raccontare storie, è importante. Impazzireste senza qualcuno che vi distragga, che vi faccia riflettere o sognare, le altre tribù non lo hanno uno che racconta le storie». Francisco era rimasto colpito, l’affermazione di M. sembrò talmente stupida da avere un senso. «Bene, facciamo così, raccontaci una storia. Se mi piace, resti in vita. Non provare a fregarmi, però, rifilandomi racconti che già conosco, devono essere originali». Francisco aveva preso il machete per la prima volta e lo aveva avvicinato al collo di M. «Dai, racconta». M. per fortuna aveva elaborato una storia nei giorni in cui era rimasto a vagare in solitudine. Immaginare storie era l’unico modo per non impazzire. La raccontò ad alta voce, un po’ improvvisando, ma seguendo il canovaccio che aveva in testa.

Era ambientata nel vecchio mondo, parlava di un uomo caduto in depressione che si addormentava, in sogno, incontrava una ragazza meravigliosa, di cui, poco a poco, notte dopo notte, si era innamorato. Non sopportando di non vederla più ad ogni risveglio, si era tolto la vita, convinto che così sarebbe finito per sempre nel mondo della ragazza. Ma si accorse, al contrario, di essere stato imprigionato nei sogni della sua innamorata. «Hai sbagliato, avevo ottenuto il permesso di venire nel tuo mondo, per sempre, ora non posso più tornare indietro, tu non puoi più tornare indietro». Da allora si vedevano solo quando era lei ad addormentarsi e sognarlo. Francisco, al termine del racconto, era apparso interdetto, infastidito, e M. aveva pensato che lo avrebbe ucciso.

Invece gli aveva detto: «Non male, non male. Tieni, mangia – gli aveva allungato della carne – facciamo così, tu avrai il compito di raccontarci le storie, una il ventesimo giorno di ogni mese. Ma ricordati: la prima volta che fallirai o che la storia non mi piacerà, tu morirai perché si dimostrerà che sei inutile». M. aveva accettato, non aveva alternative. E così, mese dopo mese, si era ripetuto il rituale della tribù che si radunava in cerchio, Francisco che con il machete aspettava il racconto e M. che inventava sempre una storia differente, salvandosi la vita. Quel giorno però Francisco appariva più cupo del solito, mentre M. era pallido. «Dai, sentiamo questa storia» aveva tagliato corto Francisco. M. lo aveva guardato, aveva guardato tutti gli altri, fissato gli uccisori, poi aveva sussurrato. «Mi dispiace, questo mese non ho una storia, non so perché, ma non ce l’ho». Francisco, minaccioso, con il machete sollevato: «Mi stai sfidando?». M. gli aveva risposto con un sorriso. La mano di Francisco iniziò a tremare, ma proprio mentre stava per sferrare il colpo, ebbe come un sussulto. «Non possiamo fare a meno di te, abbiamo perso tutto, le nostre vite come erano prima, viviamo di violenza e brutalità, solo le tue storie ci tengono legati al passato, quando tutti eravamo migliori. Pensi che riuscirai a tornare a raccontare altre storie?». M. lo fissò: «Ma non lo hai capito? Ho appena concluso un’altra storia, anche se l’hai raccontata tu. Andiamo a dormire».

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