Signs Preyer

29 Settembre 2017

Come nasce il gruppo? E da dove viene questo nome?
Nasce nel 2005, come tante band: alcuni adolescenti si uniscono per suonare, giusto per sperimentare qualcosa di diverso. Iniziammo a suonare brani di diversi generi, dall’hard-rock al metal, dal blues a molti altri, fino a quando non sentimmo l’esigenza di scrivere qualcosa di nostro. ​Il nome Signs Preyer ha origini strane, in un’estate sempre nel 2005. Il nome precedente della band era Three Toed Sloth, ma suonava male alle orecchie di un adolescente, come eravamo noi all’epoca. In una notte piena di alcol e follia, cominciammo a rubare cartelli stradali e allora la proposta fu Road Signs Predator. Ma anche questo suonava male, allora Viktor con un’accurata ricerca trovò il termine preyer. Un termine ormai in disuso nella lingua inglese moderna, che deriva da to prey e significa predatore. Togliemmo anche “Road” e rimase “Signs Preyer” che poi però con la maturità della band e dei singoli elementi prese un significato del tutto diverso. Il “predatore di Segni” siamo noi che insieme assimiliamo la realtà della vita, con emozioni, sentimenti, cronaca​,​ e la traduciamo in musica.

La vostra musica è un mix di metal, southern, groove, blues… Come nascono i pezzi?
Nascono direttamente in sala prove. Cominciamo a improvvisare, ci piace molto farlo. Un riff dopo l’altro e alla fine sentiamo qualcosa di diverso che ci dà energia, così senza accorgercene cominciamo a strutturare una strofa, un chorus, uno special e via discorrendo, ma il tutto avviene in modo molto naturale, se non ci arriva al petto non funziona. Non pensiamo a stare nel box di un genere. La musica è libertà e va vissuta così per noi: libera. Cerchiamo una espressività quasi viscerale.

Due album all’attivo: il primo, omonimo, e il secondo con un titolo abbastanza pachidermico: Mammoth Disorder. Ce ne parlate?
Il primo album è uscito con la Red Cat Records di Firenze, etichetta tutta italiana che promuove molto bene le band del territorio. Un disco che parla di alcuni stati d’animo interiori portati all’estremo; per esempio, un risentimento diventa odio e collera. Abbiamo sperimentato noi stessi, anche perché è un album che è stato scritto in varie “epoche” personali. Mammoth Disorder, invece, è stato pubblicato con Nadir/Buil2Kill, etichetta abbastanza nota in quanto il direttore artistico è Trevor, il cantante dei Sadist, band italiana di successo nel panorama internazionale. Siamo stati molto fieri che Nadir abbia voluto lavorare insieme a noi. È un album pieno di concetti, molto più maturo rispetto al primo. L’album parla di vari aspetti della vita, da buon “predatore di segni”, dal socio-politico a temi psicologici, dal puro divertimento alla sperimentazione personale nel lato più buio di noi stessi. Abbastanza “pachidermico”, appunto! Era proprio quello l’effetto che cercavamo: ​Mammoth​ ​D​isorder è nato dal​​l’​ ​idea di creare un qualcosa di massiccio e irruento come appunto lo è un mammoth: tranquillo e pacato, ma sei lo fai incazzare sei finito! Abbiamo impiegato circa otto mesi, un lavoro duro ma che ha dato i suoi frutti e oltretutto ci ha dato anche idea e modo di rinnovare il nostro logo, quindi lo consideriamo quasi come un disco di svolta per noi.

Come considerate la scena musicale locale?
Complessa, poco meritocratica, decisamente con scarse occasioni. La mancanza di locali dove una band emergente o meno possa suonare la propria musica (e sottolineiamo “propria”) si fa sentire tutti i giorni. Molti locali che hanno la volontà di farlo vengono boicottati dalle band stesse per stupide gelosie. La cosa che però più ci rattrista è che non è una situazione che si ferma al nostro territorio e neanche a quello nazionale, ma sembra essere allargata in tutta Europa, per quanto abbiamo visto nei nostri tour. Vediamo però un lento miglioramento rispetto ad alcuni anni fa, perché ci sono situazioni e associazioni che cercano di incentivare la scena musicale underground come i ragazzi del Ministero del Metallo e molti altri.

Un sogno nel cassetto?
Diversi​,​ ​oseremmo dire​!​​ ​Quello comune è di suonare le nostre canzoni in giro per il mondo. Trasmettere qualcosa a chi ci ascolta. Non ci interessa diventare delle rock star, ma poter vivere con la nostra musica sì​.​ Tuttavia l​a cosa più importante di tutti è continuare sempre a suonare insieme.

Tre canzoni chiave?
Siamo molto diversi tra noi​: ​Ghode è un patito del funk e del soul, Mapo degli anni ‘70 e Viktor del post-rock. Trovare tre canzoni chiave che ci legano non nostre è difficile, ma ci proviamo​… Superstition di Stevie Wonder, Sorrow dei Pink Floyd e Kashmir dei Led Zeppelin ci possono raffigurare abbastanza bene.​ Inoltre possiamo comunque aggiungere la nostra Homies che ormai è diventata quasi un “inno”.

Progetti per il futuro?
Ovviamente diversi live, ma in casa Signs Preyer è in cantiere il nostro terzo album. Già abbiamo tutti i brani pronti e siamo in fase di pre-produzione. Stiamo registrando il tutto in presa diretta dal vivo, su nastro! Un back to the origins quasi dovuto visto l’estremo utilizzo di plug-in, software, sequencer, basi e chi più ne ha più ne metta, che sì aiutano la creatività ma tolgono molto la parte umana del musicista. Il feeling e il tocco che ha un musicista con il proprio strumento non sono riproducibili da nessuna macchina. La verità, la realtà non è nelle macchine ma nell’uomo. Sarà un disco vero, in tutti i sensi. Live con tutte le nostre personalità all’interno in tempo reale, proprio come in un concerto. Del resto, i migliori dischi della storia della musica negli anni ‘70 erano fatti così​,​ no?

Eleonora Anzini

 

SIGNS PREYER
Ghode: voce e chitarra
Viktor: basso
Mapo: batteria

CONTATTI
www.facebook.com/signspreyer

 

Credits foto: RICCARDO BIANCHI

 

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