Gianna

1 Marzo 2018

Samuele legge i commenti su Instagram alla storia che ha appena pubblicato (lui nella festa al compleanno di una compagna di scuola mentre balla circondato da tre amiche e la scritta “wild wild wild”): «Sei cinese ma sei figo», «Non eri così bello i primi anni del liceo, studiare per la maturità ti fa bene», «merda scoordinata» (questo è quello che più lo fa ridere, l’ha scritta per scherzo Antonio, il suo migliore amico).

Vorrebbe rispondere per la milionesima volta: sì, sono figo, ma non sono cinese, sono italiano come voi, ho i lineamenti asiatici perché i miei mi hanno adottato in Cambogia quando avevo un anno, ma non ci sono più tornato, anche se un giorno mi piacerebbe. Poi lascia perdere, a scrivere il commento è stata Sara, la sua amica lesbica di un’altra sezione, che conosce benissimo la sua storia. Si alza dal letto, ancora assonnato. E si sente bene: la festa è stata divertente, Annalisa gli ha promesso che andranno al cinema insieme, si è ubriacato ma non è stato male, i suoi genitori non gli hanno fatto storie per essere tornato tardi. Da quando a scuola i voti si sono alzati, gli lasciano più libertà e comunque, se fa il raffronto con i racconti dei suoi amici, può dirsi fortunato: genitori simpatici e intelligenti, anche se a volte un po’ rigidi, molti soldi in tasca, una bella villa nella periferia nord di Roma.

Lo spaventa però pensare a cosa succederà tra trent’anni, quando la madre e il padre saranno anziani. L’affetto che prova per loro è tale da sentirsi spaventato già oggi. La madre, Alba, già a sei anni gli disse che era stato adottato. «Questo non significa che ti vogliamo mene bene, significa che te ne vogliamo di più, ti abbiamo scelto tra tanti in quell’immenso orfanotrofio». Scelto tra tanti. Ogni tanto Samuele ci pensa: cosa sarei ora se non fossi stato abbandonato nell’orfanotrofio o semplicemente se i miei non mi avessero adottato? La voce dolce della madre gli torna sempre in mente, nei rari giorni tristi e lo rinfranca: «Scelto tra tanti».

Samuele esce dalla sua stanza e si avvicina alla cucina, dove i genitori stanno facendo colazione. Vuole fare uno scherzo, spaventarli, cammina senza far rumore. Sente la madre rivolgersi al marito: «Sai che oggi sono esattamente diciassette anni dal viaggio in Cambogia, dalla prima visita all’orfanotrofio?». «Sì, sì, questi anni sono volati, è incredibile, Samuele è già un uomo». «Sì, che bravo che è. A volte però pensò ancora alla bambina, ti ricordi? L’avevano vista, sola, nella stanza, era meravigliosa. Ti ricordi quando la portammo in hotel?». «Come faccio a dimenticarla? L’avevamo vista e capito che era lei la nostra … la nostra famiglia». «Mi sono sempre chiesta se i medici dell’istituto sapessero che era malata?». «No, non penso. È successo tutto in fretta, è morta quasi due giorni dopo l’invio delle carte dell’adozione. Ho dovuto pagare ventimila dollari per convincere il tizio dell’orfanotrofio a farci prendere un altro bambino. All’inizio è stato difficile…». «Sì, Samuele piangeva sempre e pensavamo sempre alla bambina. Gianna la volevamo chiamare, ricordi? Come la canzone di Rino Gaetano?».

Samuele ha sentito tutto. Torna nella sua stanza. Spegne lo smartphone, vuole isolarsi da tutti. La madre lo chiama «Samuele, ma dormi tutto il giorno? Va bene che è domenica, però…». «Ho sonno – risponde per non sentirla più urlare – datemi un’altra ora». Resta supino sul letto, la testa affonda nel cuscino, quasi volesse soffocare. Non sono stato scelto tra tanti, si ripete, in realtà non volevano me. Quella notte, quindici ore dopo, squilla il cellulare del padre di Samuele. È medico, succede che lo chiamino anche a quell’ora. «Giovanni, sono Paco, il titolare del pub qui all’angolo, una volta mi hai dato il tuo numero per una visita… sul marciapiede c’è tuo figlio, accasciato a terra. Se vieni te è meglio, non vorrei dovere chiamare l’ambulanza, la polizia. Lui è un bravo ragazzo».

Un’ora dopo Samuele sta bevendo un caffè con il padre nella tavernetta della villa. Ad Alba non hanno detto niente, è a dormire dalla sorella che non sta bene. «Posso dirti che sei un deficiente a bere così tanto o poi mi accusi di essere un padre all’antica?». Samuele lo guarda, vorrebbe rispondergli che la merda è lui e lo è anche sua madre. Gli hanno sempre raccontato di essere stato scelto tra tanti, invece è lì solo perché l’altra bambina è morta. Vorrebbe urlare, dirgli che lo hanno ingannato. Poi, però, l’effetto dell’alcol se ne va via e gli restituisce una lucidità che non ha mai avuto. Guarda il padre, sa di volergli bene; pensa alla madre, il prossimo anno compirà 46 anni, gli sembrano tantissimi, non vuole impegnare i giorni che restano parlando del passato. Le cose sono andate come dovevano andare, dice a se stesso. Sorride al padre: «Non succederà più, andiamo a letto dai. E non dire nulla alla mamma».

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