“Parlare da solo”, un racconto di Mauro Evangelisti

28 Ottobre 2020

Quando lavora ed è certo che nessuno possa udirlo, parla da solo. Si asciuga il sudore con un fazzoletto di carta.

«I più insulsi sono coloro che dicono: quando è nato mio figlio, ho dato un senso alla mia vita. Ma che vuol dire? La mia vita non ha un senso, allora faccio un figlio così che scoprirà che la vita non ha un senso e farà un figlio per dare un senso alla vita. Come se poi i figli nascessero per chissà quali alti valori, nella maggior parte delle volte avviene per caso, l’eccitazione, una scopata, il sesso, un’azione che tutto è meno che nobile. Eppure, dopo un rapporto avvenuto magari a causa di qualche birra di troppo, diciamo che il figlio, conseguenza di quella sbronza e di quella stronza, ha dato un senso alla nostra vita».

Tace qualche secondo, stringe gli occhi perché gli sembra che qualcosa si stia muovendo, ma è solo il vento. Dalla finestra della stanza che ha affittato con un falso nome, su Airbnb, si sentono anche le voci di chi è seduto al bar, sotto. Continua a parlare da solo: «Guardiamo i nostri bambini, ci commuoviamo, li adoriamo e poi, come è successo anche a me, gli anni passano in un lampo e ti ritrovi in casa degli adolescenti ciccioni, puzzolenti e indisponenti che ti chiedono solo soldi, bel senso della vita, certo. Ma vale anche il contrario: ci sono quelli che ricordano la madre o il padre come fossero semidei, quanto meno dei profeti. Ripetono le loro frasi, magari banalissime e stupide, come fossero versetti religiosi, hanno in mente loro azioni o presunti insegnamenti come se avessero avuto come genitori Gandhi o Buddha. Poco importa se quando erano in vita magari li hanno trattati malissimo, detestati. E ci sono quelli che quando vanno al ristorante, ordinano una carbonara o il tiramisù, poi però ti dicono che la loro madre o la loro nonna preparava la carbonara o il tiramisù meglio di chiunque altro al mondo. Eh, sì, non li sopporto: come è possibile che tutte le nonne o tutte le madri fossero le migliori cuoche al mondo? Chissà perché nessuna di loro ha aperto un ristorante o è diventata uno chef acclamato. Tutti a pensare che il passato fosse migliore, a ripetere “con i tempi che corrono”, “una volta era differente”. Balle. Gigantesche balle. Siete voi che siete dementi. Nel secolo scorso i ragazzi andavano in guerra, uccidevano e si facevano uccidere, si esaltavano per i dittatori, andavano ad arrestare le persone da portare nei campi di concentramento. Un tempo si moriva prima, molte più malattie di oggi erano incurabili, non si poteva divorziare, mangiare la carne una volta alla settimana era già un successo, i giovani uscivano dall’Italia solo per emigrare o andare a fare la guerra. Però per voi era meglio una volta, il problema sono i ragazzi che oggi usano troppo lo smartphone, non quelli degli anni Settanta che andavano a sparare per strada».

Afferra la birra che ha portato con sé e ne bevve un sorso. Solitamente non tocca alcolici mentre lavora, ma sente di averne bisogno, è un incarico più difficile degli altri. Rutto. «La verità – prosegue il suo monologo – è che non ho più la freddezza di un tempo per questo tipo di lavoro. Un tempo ero lucido, distaccato, nulla mi scuoteva. Per questo ho avuto tanta fortuna e sono diventato il migliore. Chi si affidava a me sapeva che non mi sarei fermato davanti a nulla, non avrei avuto remore, non avrei giudicato. Avrei eseguito il compito per cui ero stato pagato, ben sapendo che non lo avessi fatto io, lo avrebbe fatto qualcun altro e dunque non potevo e non dovevo cambiare il corso degli eventi. Dovevo solo eseguire e incassare. Invece, un mese fa con quella ragazza ho esitato, mi sono fermato, ho visto i suoi occhi e avevo studiato la sua storia, sapevo che non meritava di morire. Aveva denunciato l’uomo che l’aveva stuprata. Per vendetta la famiglia, molto potente, mi aveva chiesto di ucciderla. Ho esitato, lei ha avuto il tempo di salire sul taxi, raggiungere l’aeroporto. Ho fallito e se non sono stato messo da parte è perché è stato l’unico errore nella mia carriera. Ma sono diventato un fiore di campo, un tenero, un debole».

Si ferma, il portone del palazzo di fronte si apre, questa volta non è un falso allarme. L’obiettivo sta uscendo, alza il fucile di precisione, inquadra nel mirino l’uomo circondato da alcune guardie del corpo. «Mi dispiace, papà, ma ti devo sparare, mi hanno già pagato». La testa dell’uomo esplode, cade a terra, sangue, urla. Lui prende la birra, la finisce, ripone il fucile nella custodia e se ne va.

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