carlos monzon

Carlos Monzon, la vita come un ring

14 Giugno 2021

Un destro devastante. Nino Benvenuti va giù all’angolo. Si rialza. È fortemente stordito. Nel caos che frattanto monta sul ring, barcolla subito e si accascia alle corde. È ko. A un metro da lui, un argentino alza i pugni al cielo, sommerso dall’abbraccio del suo entourage. È campione del mondo dei pesi medi. Quella del 7 novembre 1970 è la notte il cui il mondo scopre chi è Carlos Monzon.

Prima, non molti sanno del sudamericano d’acciaio dall’impenetrabile volto da indio. Alto, longilineo, occhi rapidissimi, freddo. Il suo pugno alla dodicesima ripresa è un treno che Benvenuti, già logorato dall’inattesa e chirurgica boxe dello sfidante arrivato da oltreoceano, si prende in faccia. Un treno partito dalle polverose strade di San Javier, villaggio nella provincia di Santa Fe. Carico di rabbia, istinto di sopravvivenza e voglia di allontanare la povertà, l’avversario con cui ogni giorno, laggiù, c’è da fare a cazzotti.

Monzon nasce nel 1942, ottavo di quattordici figli, dato alla luce in un misero capanno. Sangue mocovì nelle sue vene, il padre fa il gaucho per portare a casa un po’ di pesos e latte. Lustrascarpe, facchino, strillone: anche Carlos, sopravvissuto pure al tifo, si dà da fare nelle strade. Rubacchia qua e là, non disdegna di menar le mani. La scuola diventa presto un ricordo. A quindici anni, Amilcar Brusa se lo porta in palestra, per indirizzare l’indole violenta di quel ragazzo nel miglior modo che conosce: il pugilato.

La nobile arte trasforma la sua vita, ma i lati oscuri di un carattere segnato non lo abbandonano mai. A vent’anni è già sposato con quattro figli. È facile all’ira. Mette le mani addosso. Non riesce a sottrarsi alle ombre del passato, che torneranno ripetutamente ad avvolgerlo, fino all’estrema rovina.

Carlos Monzon: la boxe, la violenza, la tragica fine

Sul ring, però, Monzon è tutt’altro: un campione vero. Passa professionista nel 1963, perde solo tre volte in carriera. Gli argentini non amano il suo tirare di boxe così scarno e lineare, per quanto efficace. Cambiano idea al ritorno in patria, dopo la cintura strappata a Benvenuti. Si inchinano a lui Griffith, Briscoe, Licata, Dale, Bouttier e tanti altri. Monzon è una star mondiale. Si ritira nel 1977, a 35 anni, dopo aver faticato ma vinto, due volte, con il colombiano Valdez.

La vita mondana lo strega. Donne su donne, attori, jet set. È un habitué dei casino. Recita in un western tutto scazzottate, sul cui set conosce Alicia Muniz: terza moglie. La seconda, Susana Gimenez, era arrivata persino a sparargli. Il matrimonio, per Monzon, è la continuazione del ring. Finisce anche questo legame, ma i due si rivedono in una sera di febbraio del 1988 a Mar del Plata. L’ennesima lite. Le parole si trasformano in botte. Le grosse mani di Carlos si stringono attorno alla gola di Alicia. La colluttazione deborda sul balcone. I due volano in strada. Alicia resta immobile sull’asfalto.

All’alba Carlos, ammaccato ma ben cosciente, dà l’allarme: «Si è buttata!» Pochi ci credono, men che meno i giudici. Qualcuno fa persino manomettere il cadavere per fuorviare l’autopsia. I segni dello strangolamento restano certi. Condanna a 18 anni, poi ridotta a 11. L’Argentina, in totale imbarazzo, cerca di distaccarsi dal suo campione violento. Ma ancora influente, visto che anni dopo ottiene la libertà vigilata. Di giorno lavora, la sera rientra in cella.

L’8 gennaio 1995, senza apparente motivo, accelera con la sua Renault 19. Sta tornando al carcere di Santa Fe. Quasi avesse fretta di trovare rifugio da quella libertà che sembra mandarlo fuori di testa. Sfreccia a 150 all’ora su una provinciale. Sbanda, carambola sulla banchina, barcolla come quella volta Benvenuti sotto i suoi colpi. Si schianta fuori strada. Non lontano dai luoghi in cui è cresciuto, quelli che hanno alimentato la sua rabbia. Per lui, niente da fare. L’arbitro che si chiama destino decreta il ko per Carlos Monzon, anni 52, e non serve nemmeno la conta.

Foto: AFP/Getty via Indipendent.co.uk